A bordo della Hope

La scaletta di legno poteva essere calata dal fianco della nave dal ponte principale fino al livello dell’acqua, simile a un ponte levatoio medievale. Gli attivisti aspettavano nei gommoni con l’ansia di un’orda di antichi Sassoni che si accingono ad attaccare un castello normanno, pronti a continuare la festa a bordo della nave. Aggie salì con loro facendo attenzione alla patina scivolosa e ghiacciata che ricopriva gli scalini, ma si vedeva che non provava lo stesso entusiasmo che avevano gli altri.

Gli ultimi gradini li fece tenuta in braccio da uno studente norvegese di dieci anni più giovane di lei che la depositò sul ponte ridendo e facendole un elegante inchino. Aveva i capelli così biondi da sembrare bianchi, Aggie cercò di ricambiare il sorriso, ma improvvisamente tutto le sembrava irreale, come se lei non dovesse essere lì, come se quello non fosse più il suo mondo.

Quel senso di inquietudine la assalì proprio mentre entrava nel salone principale, grata per il calore che usciva dai ventilatori. Solo allora si rese conto che aveva ancora addosso il giaccone di Mercer. Portò il colletto alle narici, e annusò l’odore intenso del cuoio, misto al profumo del suo dopobarba e all’aroma inconfondibile del suo corpo. Un odore gradevole e confortante. Si tolse la giacca buttandola sulla sedia con un gesto rapido e colpevole, come se da fuori si potesse sapere cosa stava provando.

Si sentiva separata dal gruppo che continuava a festeggiare, a malapena consapevole della birra che le veniva messa davanti e delle persone che chiacchieravano animatamente lì attorno. Pensò che forse era stata lontana troppo a lungo e aveva bisogno di un po’ di tempo per riacclimatarsi al loro stile di vita iperattivo. Oppure nel mese che era trascorso dall’ultima volta che era stata a bordo della Hope, lontano da quella famiglia allargata, era cambiata?

Di sicuro gli eventi della sua vita l’avevano colpita, la morte di Burt Manning, il possibile collegamento con suo padre. E Mercer. Carezzò distrattamente la giacca di pelle, per scoprire che era segnata da cicatrici e segni del tempo, proprio come il suo proprietario.

Quando quell’uomo al bar l’aveva afferrata e aveva cominciato a toccarla si era sentita totalmente indifesa. Avrebbe potuto violentarla in quel preciso istante senza che nessuno se ne accorgesse. E poi, all’improvviso, era arrivato Mercer, come l’eroe dei romanzi spazzatura che leggeva da ragazzina. Ancora non aveva capito come aveva fatto ad arrivare là, ma gli era profondamente grata. E non glielo aveva dimostrato. Le emozioni contrastanti che lui suscitava in lei erano totalmente ingestibili. La attraeva con un magnetismo irresistibile, eppure appena si vedevano lui riusciva a farla infuriare con una sola frase o persino con uno sguardo.

Si chiese se il suo bisogno di aggredirlo non fosse dovuto alla sua insicurezza, al desiderio di alzare un muro tra di loro. Aggie sapeva che non doveva pensare a Mercer in quei termini. Amava Jan e sperava di diventare sua moglie. Non aveva risposte chiare, solo la vaga sensazione di sprofondare in qualcosa di molto più grande di quanto fosse in grado di reggere.

Si accese una sigaretta e si alzò meccanicamente, ignorando i festeggiamenti e la birra, che rimase sul tavolo di formica in una piccola pozza di condensa. Quando era arrivata a Valdez Jan non era a bordo della Hope. Sapeva che avrebbe dovuto aspettarlo invece di unirsi al gruppo. Era un mese che non lo vedeva e avrebbe dovuto essere ansiosa di ritrovarlo. Ma sentiva il vuoto dentro di sé. Come un guscio fragile pronto a sbriciolarsi al minimo tocco.

Si avviò distratta per il corridoio che conduceva alla cabina di Jan, maledicendosi per la sua incapacità di decidere. Aveva sempre saputo quello che voleva e lo aveva sempre ottenuto. E adesso? Dio, odio questa situazione, pensò. Bussò timidamente alla porta della cabina ed entrò senza aspettare.

Jan era seduto dietro la sua scrivania e nonostante il caldo della cabina indossava un maglione pesante. Si capiva che era salito a bordo da poco, altrimenti si sarebbe cambiato, perché non sopportava il caldo. Sulla scrivania c’erano dei fogli sparsi, e lui era concentrato a testa bassa su quei documenti, con la penna tra le dita. Scarabocchiò rabbiosamente un appunto prima di alzare finalmente lo sguardo, sorridendo alla vista di Aggie in piedi sulla soglia, ancora mezza coperta dietro la porta, come se si aspettasse una sgridata. Ai suoi occhi Jan era bellissimo.

“Aggie, mio Dio, sono così felice di vederti.” Girò attorno alla scrivania spalancando le braccia, stringendola con forza a sé. Le alzò dolcemente il mento e appoggiò le labbra alle sue. Quando Aggie non rispose a quel bacio, arretrò e le chiese: “Cosa c’è che non va, tesoro?”

“Oh Jan.” Aggie tacque, non sapeva neanche lei cosa c’era che non andava. “Ho avuto così paura, stasera. Hai sentito della rissa scoppiata al bar, vero?”

“Sì, me lo hanno detto. Heinz e Pierre sono in prigione e usciranno domattina, sono accusati di ubriachezza e di disturbo della quiete pubblica. Qualcuno mi ha detto che sei stata molestata, ma che è intervenuto un locale che ti ha fatto uscire dalla porta sul retro. Deve essere stato terribile.”

“Sì” si limitò a rispondere Aggie, sollevata che Jan non avvertisse che la sua mente era occupata da altri pensieri.

“Se avessi saputo che venivi in Alaska prima del previsto sarei venuto a prenderti ad Anchorage. Perché non mi hai chiamato?” Voerhoven la teneva alla distanza del suo braccio e guardava i suoi occhi così incredibilmente verdi.

“Non lo sapevo neanche io. Sono partita d’istinto.” Non disse nulla del panico che l’aveva spinta ad anticipare il volo da Washington.

“Non fa niente. Sono contento che tu sia qui e basta.” Jan le sorrise, e il tono di voce intimo e sussurrato faceva capire le sue intenzioni.

“Ti prego Jan, stasera no. Lo so che è un sacco di tempo che non ci vediamo, ma non mi sento a posto, non mi sento… pulita. Quell’uomo…” La sua voce si fermò.

“Tesoro, non intendevo quello. Cioè, in parte intendevo quello, ma ascoltami. Stanno per succedere grandi cose. Cose che voglio che tu veda, delle quali voglio che tu faccia parte.”

All’improvviso si ricordò degli avvertimenti di Mercer. “Quali cose, Jan?”

“Aggie, stiamo per sferrare un colpo fatale alle corporazioni fasciste che stanno distruggendo il pianeta con la loro avidità.”

“C’è dentro anche mio padre?” Non voleva lasciar intendere che stava difendendo suo padre, ma il suo tono era duro e accusatorio.

“Ne abbiamo già parlato” disse Voerhoven, alzando le mani come per difendersi da un’aggressione fisica. “Pensavo che avessi capito che lui è sempre stato uno dei nostri acerrimi nemici. La Petromax è tra i più spietati sfruttatori del mondo. Pensavo che fossi d’accordo con quello che stiamo facendo. Mi hai detto un milione di volte che volevi fargliela pagare. È la tua occasione! Siamo vicini a qualcosa di grandioso, qualcosa che salverà l’Alaska e forse tutto il mondo. Nel giro di un paio di giorni costringeremo il mondo a vivere senza petrolio. Aggie, ti rendi conto di cosa significa?”

“No, Jan. Cosa significa?” gli rispose seccamente. L’incantesimo che era sempre riuscito a tessere attorno a lei sembrava non tenerla più incatenata. Per la prima volta lo vedeva per quello che era, non come lei avrebbe voluto che fosse. Si chiese cosa diavolo le aveva fatto Mercer.

“Lo capirai quando sarà tutto finito. Vedrai. Stiamo per salvare il pianeta dal suo più grande flagello: la sete di petrolio.”

Aggie si trovò di nuovo a pensare alle parole di Mercer.

“E con cosa lo sostituirai?”

“Come?” chiese affettuosamente Jan.

“Se chiudi i rubinetti del petrolio, come farai a dare energia a scuole e ospedali e a dare un lavoro ai milioni di persone la cui vita dipende dal petrolio?” Aggie si liberò dal suo abbraccio.

“Aggs, non chiuderò i rubinetti del petrolio, ma ne farò una fonte di energia così ripugnante che nessuno vorrà usarlo mai più.”

“Cosa intendi dire?”

Lui la prese nuovamente tra le braccia, premendo il sesso turgido contro il suo corpo e accarezzando ritmicamente con le sue mani ardenti la schiena. “Ne parliamo dopo, Aggie.” Baciò la cavità della sua gola, sfiorando delicatamente con la lingua quel punto così sensibile del suo corpo.

“Jan, ti prego, te l’ho detto…”

Lui ignorò la sua supplica. “Aggie, è un secolo che non ci vediamo. Dio, quanto ti desidero.”

Aggie si lasciò condurre nella stanza da letto. Si lasciò condurre, pensò, anche se avrebbe potuto resistergli. Se Jan percepì la rigidità del suo corpo, la ignorò.

La adagiò delicatamente sul piumone.

“Sei così bella” sospirò, con il volto che ardeva di desiderio.

“Jan, ti prego, lascia stare” sussurrò Aggie. Perché stava accadendo? Perché gli stava permettendo che accadesse? Voleva fermarlo, ma allo stesso tempo sentiva che glielo doveva, e anche mentre pensava questo, sapeva che era sbagliato. Non gli doveva niente.

Jan le sbottonò i jeans e abbassò lentamente la cerniera. Lei non si mosse per aiutarlo, e non cercò di fermarlo. Le sue mani conoscevano così bene il suo corpo e le accarezzavano i fianchi stretti, scivolando verso i seni. Non glielo doveva? Stavano insieme da quasi un anno, era giusto farlo.

Lui si spogliò e un istante dopo la penetrò facendole male, perché il suo corpo non aveva risposto alle sue avance. Jan sembrò non accorgersene. Le era completamente sopra, sosteneva il suo corpo nudo con le braccia mentre si muoveva avanti e indietro, con la testa piegata all’indietro e gli occhi chiusi, e quando raggiunse l’orgasmo appoggiò la testa sulla spalla di lei in un’esplosione silenziosa.

Aggie si sentiva una puttana.

Verso mezzanotte Mercer tornò in albergo con la mente sgombra e le selvagge emozioni di un’ora prima saldamente imbrigliate. Era mezzo congelato. Dato che aveva lasciato la giacca a Aggie, era dovuto tornare in maniche di camicia e il clima non era esattamente adatto. Pensò di fare una doccia, ma una rapida occhiata all’orologio gli disse che prima di occuparsi delle sue esigenze corporee doveva fare una telefonata.

Fece il numero e con sua sorpresa il telefono squillò quattro volte prima che una voce scocciata dicesse: “Cosa c’è?”

“Buonasera, Dick, sono Mercer.”

“Cristo, Mercer, dove cazzo sei?” esplose Henna. Ho scatenato una task force in piena regola per trovarti.”

“E dai, Dick, sono al Willard Hotel, dove mi hai lasciato” rispose Mercer con aria innocente.

“Ridi, ridi, simpaticone” grugnì Henna. “Ti manderò il conto di tutte le bottiglie che si è portato via Harry. Dove sei adesso?”

“A Valdez, in Alaska.”

“Ti avevo detto di stare lontano dall’Alaska. Sei sordo per caso?”

“Dick, smettila… I celacanti sono nella fase riproduttiva, si preannunciano ottime battute di pesca.”

“Per tua informazione, i celacanti si trovano solo nell’oceano Indiano.”

“Ecco perché non sono ancora riuscito a prenderne uno” rise Mercer. “Pensavo di aver sbagliato l’esca.”

“Va bene, sei in Alaska” disse Henna rassegnato. “Cos’hai scoperto?”

“Niente di concreto per adesso, ma ho dei sospetti” rispose Mercer. “A proposito, e tu dove sei?”

“Sono alla Casa Bianca con il Presidente e il segretario per le politiche energetiche. Vuoi parlare con qualcuno di loro?”

“Di’ a Connie che dovrebbe seppellire le comode scarpe che indossa.”

Mercer sentì l’inconfondibile risata di Connie van Buren e capì che Henna lo aveva messo in viva voce.

“Come te la passi con la figlia di Max Johnston?” chiese Connie. “Vi ho visti andare via insieme dal ricevimento.”

“Sai che effetto faccio alle donne, Connie” ridacchiò Mercer, “e lei mi odia con tutte le sue forze. Dick, ho bisogno di un favore.”

“Cosa c’è stavolta?”

“Hai presente la PEAL, quell’organizzazione ambientalista? Secondo me stanno tramando qualcosa da queste parti.”

“Non è la direzione che stiamo seguendo noi, Mercer. Stiamo studiando la pista di Kerikov. La PEAL non c’entra.”

“Ho visto alcuni di loro fare a pezzi un bar pieno di gente del posto. Si muovevano come soldati addestrati, non come i soliti aspiranti druidi amanti della terra.”

“Se tu mi ascoltassi… stavo per dirti che abbiamo trovato Ivan Kerikov” esclamò Henna. “Sembra che stia lavorando con dei mediorientali e non con un gruppo di radicali.”

“Cos’hai scoperto?” dalla sua voce era scomparsa ogni traccia di umorismo.

“Abbiamo rintracciato il suo passaporto falso all’Holiday Inn Tower Hotel di Anchorage. Ha preso tre camere. Una suite per sé e due stanze per quelle che sembrano essere due guardie del corpo. Il personale si è ricordato di tre delle guardie, arabe, e di un uomo che corrisponde alla descrizione di Kerikov e che si è allontanato dall’albergo per un paio di giorni. I tempi coincidono con la sparizione di Howard Small. Purtroppo, quando siamo andati a perquisire l’hotel stamattina li abbiamo mancati di un paio d’ore. Erano già andati via tutti.”

“Merda” disse Mercer amareggiato. “Aspetta un momento, magari ha fatto delle telefonate.”

“Niente da fare. Ne ha fatte un paio, ma tutte a un servizio di trasferimento privato di New York.”

“Un che?”

“Una specie di casella postale per le telefonate. Tu chiami e il servizio ti trasferisce su un’altra linea usando un vecchio PBX manuale, e in quel modo tutte le tracce finiscono sul servizio di trasferimento e non sul numero della persona con cui stai cercando di parlare. Il KGB l’ha usato per parecchi anni, qui negli Stati Uniti.”

“C’è comunque qualcosa che non torna. Vengono trasferite di nascosto in Alaska duecento tonnellate di azoto liquido nell’arco di un paio di mesi. A Kerikov serviranno più di due arabi e di qualche guardia del corpo per farci qualcosa.”

“E secondo lei la PEAL è coinvolta?” Era la voce inconfondibile del Presidente, che aveva seguito la conversazione.

“Sì, signore, ne sono convinto. Non ho prove, ma mi rendono terribilmente sospettoso.”

“Cosa pensi che si dovrebbe fare?” chiese Henna.

“Perquisire la loro nave, scoprire se l’azoto liquido è a bordo, o se possiedono impianti speciali di raffreddamento che avrebbero potuto usare per stoccarlo. E arrestarli se trovate anche solo una macchina per il gelato. Io so che sono coinvolti.”

“Mercer, non è che posso andare in giro a sequestrare navi che battono bandiera straniera.”

“Ma dai Dick, sei il capo del dannato FBI. Sono sicuro che sei in grado di inventarti qualcosa per mandare degli uomini a bordo della Hope. Usa la copertura di un’ispezione dell’ufficio igiene per il controllo delle piattole del Brasile, inventati qualcosa, cazzo.”

“Se non è come dici, ti faccio un culo così.”

“Pensavo che me lo volessi già fare per il mio giretto in Alaska” lo prese in giro Mercer.

“Cos’altro hai per le mani?”

“Niente. O forse tutto. Ho scoperto che Burt Manning in passato aveva lavorato per Max Johnston. E Johnston sapeva esattamente l’ora in cui la mia casa è stata attaccata.

“Cosa sta dicendo?” Il Presidente sentì subito puzza di scandali. Aveva appena finito di giocare a golf con Johnston.

“Non lo so, signore, ma ho parlato con la figlia che era piuttosto spaventata.”

“Mercer” chiese Connie van Buren entrando nella conversazione, “non penserai che Johnston sia coinvolto, ha più interessi lui in Alaska di chiunque altro.”

“Concordo, Connie, è per quello che non ne sono sicuro. Ho solo raccolto un’informazione e volevo passarvela.”

“Daremo un’occhiata alla Hope come hai chiesto, ma voglio che tu torni a Washington al più presto.”

“Lo farò, Dick” disse Mercer serio. “Ma voglio far parte della squadra che salirà a bordo della Hope.”

“È una faccenda che riguarda i federali, e tu sei solo un civile.”

“E forza, Mercer, dai un po’ di fiducia a questo civile. Potrei avervi dato una traccia, mentre i duecento uomini che stanno frugando in tutto lo Stato non hanno trovato niente.”

“Dottor Mercer, farò in modo che lei faccia parte del commando, ma solo come osservatore.” Il tono del Presidente era calmo e neutro. “Tuttavia, voglio che lei mi garantisca personalmente che subito dopo prenderà il primo aereo per Washington.”

“Può contarci” disse Mercer.

Richard Henna chiuse il cellulare perché si rese conto che Mercer aveva già riattaccato e si appoggiò all’indietro sulla sedia. Lui e Connie van Buren erano seduti davanti al Presidente nella stanza ovale. Nonostante fossero tutti vestiti in modo informale, c’era una certa ufficialità nell’aria.

Erano là da almeno due ore, a discutere su come mettere in pratica la politica energetica del Presidente e a valutare il coinvolgimento di Henna per garantire lo svolgimento senza intoppi di tutte le operazioni. Nessuno dei potenti di Washington era così ingenuo da pensare che non ci sarebbero state proteste, nazionali e internazionali, su quello che il Presidente aveva proposto. Le compagnie petrolifere e i gruppi ambientalisti non erano gli unici attori che si sentivano minacciati da quella mossa isolazionista.

Un gran numero di nazioni produttrici di petrolio la consideravano un altro passo dell’America verso la distruzione del loro stile di vita, e proprio in quel momento si stavano riunendo a Londra. Le fazioni militanti dell’OPEC intimorivano gli Stati Uniti con l’enorme potere economico che detenevano. I tre personaggi seduti attorno a quel grande tavolo dovevano assicurarsi che le possibili ritorsioni non avrebbero mai raggiunto le coste dell’America.

“Che figlio di puttana” disse Henna affettuosamente mentre si alzava e si avvicinava al mobile bar contro la parete. Si versò una dose abbondante di Scotch in un bicchiere e lo bevve d’un fiato.

“Perché dici così?” chiese Connie.

“Perché di sicuro ne sa più di noi. Sono sicuro che crea queste situazioni solo per farmi fare brutta figura” disse Henna sfinito. “Non credo che lei abbia fatto bene, signor Presidente.”

“Perché?” chiese secco il Presidente.

“Perché lui potrebbe ubbidirle e tornare a casa per davvero, e avremmo perso l’uomo migliore che abbiamo in Alaska.”

“E cosa mi dici degli altri nostri due o trecento agenti?” chiese Connie.

“Ho duecento agenti che non hanno scoperto niente. Sono così disperato che ho messo degli uomini alle costole dei fattorini della Fedex per seguire i pacchi sospetti. E in soli due giorni, Mercer ci ha fornito più elementi di quanti ne abbiano trovati tutti i nostri uomini messi insieme. Nessuno dei miei ha le sue competenze scientifiche o l’intuizione di fare collegamenti come fa lui. Mercer conosce gli effetti dell’azoto liquido e sa per cosa può essere utilizzato, mentre io ho una schiera di uomini entusiasti con un taglio di capelli da soldato e l’atteggiamento dei giocatori di seconda linea, che non vedono l’ora di buttare giù le porte e di fracassare qualche testa. Nessuno di loro è in grado di mettere insieme i pezzi come fa Mercer. È il nostro uomo di punta laggiù, e se decide di tornare a casa, temo che ne faremo le spese.”

“Dick, conosco Mercer da più tempo di te” disse Connie van Buren. “Non ti sembra di attribuirgli un po’ troppi meriti?”

“Connie, tu non hai vissuto la crisi delle Hawaii” rispose serio il Presidente. “Quando c’è di mezzo Mercer non mi meraviglio più di niente.” Poi si rivolse a Henna: “Secondo te i suoi sospetti sulla PEAL e su Max Johnston sono fondati?”

“Sulla PEAL, può darsi. Il loro capo è uno stronzo patologico.” Henna sprofondò nella sedia. “Ma Johnston, non credo. È sempre stato un tipo onesto.”

“Dick” disse il Presidente con un tono serio che rifletteva tutta la gravità della situazione, “sappiamo entrambi che mi ha salvato le chiappe quando c’è stato l’incidente delle Hawaii. Se lui ha dei sospetti, ce li ho anch’io. Fai qualche indagine su Johnston. In sordina.”